IL MESSAGGERO 30 Maggio 2017
L’ INTERVISTA BERLINO Ciclone Muti: in un ciclo di quattro concerti a Berlino con i Berliner Philharmoniker, Riccardo Muti ha elettrizzato il pubblico e rianimato l’ aura di Karajan. In programma Schubert e Ciaikovski. L’ ultimo era con la virtuosa del violino, Anne-Sophie Mutter, scoperta da Karajan a 13 anni, per festeggiare i 40 anni di collaborazione con i Berliner. Muti parla del rapporto con l’ orchestra, dei prossimi progetti e dell’ Italia. Maestro, a Berlino non viene spesso ma quando viene lascia decisamente il segno «Con i Berliner ho un rapporto antico perché vi debuttai nel 1972 su invito di Karajan. Da allora i miei ritorni sono stati continui. Dopo la morte di Karajan e le turbolenze con l’ orchestra mi dispiaceva la situazione drammatica fra la grande orchestra e il grande direttore, a cui ero molto affezionato, non ero più tornato. Poi i contatti sono ripresi e di recente sono venuto tre volte. Ora ci siamo dati appuntamento a Baden-Baden nel 2019 con la Messa da Requiem di Verdi. Volevano anche che facessi Otello ma ho dovuto rifiutare perché mancava il tempo necessario per le prove». A 27 anni dalla morte, quanto c’ è ancora di Karajan in quella che fu la sua orchestra? «Parliamo sempre di una grande orchestra che dopo Karajan è passata nelle mani di altri direttori musicali e di giovani musicisti di valore. La fisionomia di un’ orchestra cambia perché prende l’ impronta dei direttori che si sono succeduti. Ciò che rende grande un’ orchestra è la capacità di non recidere le radici da cui proviene: von Bülow, Nikisch, Furtwängler, una storia germanica molto profonda. Il segreto è riuscire, nonostante i cambiamenti che il tempo porta, a ritornare nelle mani del direttore capace al suo antico glorioso suono, come succede per i Wiener. I Wiener e i Berliner sono comunque le orchestre da cui all’ inizio ho imparato di più». Molti direttori sembrano sottolineare nelle opere soprattutto i fortissimo, i passaggi a effetto: lei invece è maestro dei pianissimo, delle note sussurrate nella partitura «Generalmente oggi la capacità di insistere sulle sonorità soffuse in termini musicali, cioè i pianissimo fino al suono muto che Verdi adopera nel Macbeth, sta scomparendo perché viviamo in una società che vuole essere colpita dalla violenza sonora in genere, e ovviamente le occasioni non mancano. Oggi comunque il lavoro di molte orchestre è insistere nel rispetto di dinamiche, dei livelli di sonorità che possono andare dai pianissimi quasi inudibili ai fortissimi più esasperati. Questo dovrebbe far parte del bagaglio tecnico di ogni direttore. Ricordo una prova di Karajan tanti anni fa con i Berliner dove il grande maestro insistette per 20 minuti per abbassare la sonorità dell’ orchestra per ottenere un vero pianissimo. Anche Strehler insisteva per ore per trovare quelle luci di magia primigenia». Come fa a unire vigore e agilità sul podio conservando un gesto elegante mai sforzato? «Non ho mai fatto esercizi particolari dimostrativi della mia gestualità. Ho seguito l’ insegnamento del mio maestro Antonino Votto che ripeteva una frase Toscanini di cui fu assistente alla Scala: Il gesto non è altro che una estensione della mente: un mezzo, non un fine. Non ho mai studiato un gesto per puro effetto, la mia gestualità è sempre stata molto naturale. Forse questa scioltezza viene dalla impostazione pianistica che ho avuto a Napoli dal mio grande maestro Vincenzo Vitale. Più avanti si va negli anni e l’ esperienza, e più ci si accorge che l’ orchestra, con un buon lavoro di prove alle spalle, deve sentirsi libera e non costretta da una gestualità fastidiosa, imperativa da domatore». Davanti a sé una agenda fittissima: a luglio il concerto a Teheran delle Vie dell’ Amicizia. L’ elezione in Iran del presidente moderato Rohani lascia sperare. Cosa può fare la musica? «Questo viaggio assume anche politicamente un significato particolare. La musica ha sempre svolto una azione conciliatrice e pacificatrice poiché non fa proclami politici e non appartiene a correnti di destra, centro o sinistra ma è al di sopra, è forma di arte purissima che si esprime attraverso le corde del sentimento umano puro. Per questo la musica occidentale sta diventando patrimonio in molte parti del globo perché è un linguaggio universale. L’ idea di questi viaggi è di accogliere nella nostra orchestra e coro musicisti del luogo cui tendiamo una mano amica. Anche a Teheran si uniranno musicisti iraniani a un’ orchestra questa volta molto speciale, composta oltre che dalla Cherubini da musicisti di quasi tutte le orchestre italiane. Per cui è l’ Italia che porta un messaggio di pace». Altro appuntamento molto atteso è il ritorno a Salisburgo con un’ opera scenica: Aida con la regia dell’ iraniana Shirin Neshat, al debutto con un’ opera. Può anticiparci qualcosa? «Ho accolto con entusiasmo l’ idea del nuovo sovrintendente Markus Hinterhäuser di invitare questa grande artista che si è occupata nei suoi lavori cinematografici della situazione delle donne in Medio Oriente. Aida, fin troppo propagandata nel mondo come opera di faraoni ed elefanti, è invece opera di grande finezza e di profondi e delicati rapporti umani. Una partitura raffinatissima con presenza in scena uno, due, tre personaggi al massimo, dove il vero problema è il rapporto tra Aida e Amneris – quindi due razze, culture, religioni diverse – il rapporto fra due donne in lotta per lo stesso uomo, Radames, a cui una dovrebbe rinunciare per amor di patria. Sono tutti argomenti più che mai attuali in un mondo che fa gran fatica a integrarsi con tutte le tragedie che succedono ogni giorno. Quindi pensiamo di servire l’ opera di Verdi non tanto con la spettacolarizzazione del momento del trionfo quanto con la dialettica dei rapporti intimi fra personaggi che poi finiscono tutti in tragedia». In programma ha anche un’ altra opera scenica, a Napoli e Vienna «Ho promesso a Napoli (2018) e Vienna (2019) di dirigere una nuova produzione di Così fan tutte di Mozart con l’ Opera di Vienna con la regia di mia figlia Chiara che è cresciuta a pane e Mozart fra le Nozze di Figaro di Antoine Vitez a Firenze, il Don Giovanni di Giorgio Strehler alla Scala, Così fan tutte di Michael Hampe a Salisburgo, oltre a essersi formata alla scuola del Piccolo di Milano e avere dato prova di talento teatrale con la regia di Manon a Roma e Nozze a Napoli e Bari». Buona parte dell’ anno la passa a Chicago come direttore della Chicago Symphony: come vede da lontano l’ Italia, soffre per il nostro Paese quando vede alcune vicende nazionali? «La storia della cultura in Italia e dei rimedi per rimetterla in pole position come elemento fondamentale della storia del nostro Paese e della preparazione delle future generazioni è una storia antica su cui non credo sia mai stato messo l’ accento in maniera robusta. Ritengo che il ministro Franceschini si stia adoperando in maniera positiva in questa direzione e che la situazione culturale italiana gli stia molto a cuore. Naturalmente per risolvere e voltare pagina totalmente non basta solo un ministro ma serve la volontà di un intero governo e di vari governi che si devono rendere conto che l’ Italia per storia musicale non è seconda a nessuna nazione al mondo, anzi!». Flaminia Bussotti © RIPRODUZIONE RISERVATA.