IL MESSAGGERO 5 Agosto 2017
L’ INTERVISTA Salisburgo È la regista dell’ opera più attesa al Festival, Aida con un cast stellare e Riccardo Muti sul podio: Shirin Neshat, visual artist iraniana, esule in America dall’arrivo dei Mullah in Iran. È alla sua prima opera e lo confessa con una innocenza che fa capire perché
Markus Hinterhäuser, sovrintendente del Festival, l’ ha voluta per questa avventura, e perché Muti si sia lasciato coinvolgere. Sembra lei stessa Aida: una donna esile e bella, in apparenza fragile ma di una forza interiore dirompente. Di lei si è aperta al Museo Correr una mostra fotografica: The Home of My Eyes. E di lei sta per uscire il film Looking for Oum Kulthum su una famosa cantante egiziana. Con Women without men aveva vinto il Leone d’ argento nel 2009. Oggi la Neshat (60 anni) vive a New York con il compagno e i figli mentre il resto della famiglia è in Iran. Lei ha detto che quando Hinterhäuser le ha chiesto di fare Aida ha pensato fosse matto… «Anche alla generale mi domandavo se davvero avessi fatto io tutto questo. Può quindi immaginare come ho reagito quando Markus, sapendo che non solo non avevo mai fatto un’ opera ma non ne avevo neanche mai vista una, mi ha chiesto di fare Aida. Ma poi ho preso molto sul serio l’ impegno, ho lavorato sodo con l’ aiuto di assistenti e insieme ce l’ abbiamo fatta. L’ incontro più importante con Muti è stato a cena dopo concerto alla Carnegie Hall con la moglie Cristina e Markus: loro erano molto più fiduciosi di me nelle mie capacità, erano sicuri ce la potessi fare. Poi siamo andati da trovarlo a casa a Ravenna a presentare il progetto e lui era molto speranzoso. Ma davvero non aveva mai visto un’ opera? Non ha avuto paura di affrontare questa sfida? «Qualcosa ho visto, Nixon in China di Adams o Fidelio ma preferisco cose sperimentali, se no mi annoio. Ho visto un’ Aida al Met ma non mi piaciuta. Quanto alla paura doveva vedermi alla generale. Fare Verdi a Salisburgo, con Muti è stata una sfida con me stessa. Mi circondo sempre di gente che mi appoggia, la famiglia, il compagno: Aida non l’ ho fatta da sola ma assieme a persone di grande esperienza che mi ha aiutato a non cadere nei cliches». L’ opera parla di temi eterni: la guerra, il potere, il conflitto etnico, la religione, la rivalità e il triangolo amoroso. Come li ha sviluppati? «Più ci lavoravo e più entravo nell’ opera: il triangolo d’ amore, il rapporto religione-potere e le donne oppresse. Tutti temi in linea con la mia storia, per questo Markus forse ha pensato a me. L’ Aida di Verdi gira attorno alla celebrazione della guerra, l’ ha scritta alla luce dei grandi temi sociali, i miei stessi temi. In molte scene il focus è sul gruppo, come quella del tempio, ma quando ci sono i protagonisti emerge il singolo, il confronto massa-individuo. Nei filmati si vedono scene di dimostrazioni, l’ impatto della religione sull’ individuo. Verdi mostra come siamo minacciati dal potere religioso, dall’ imperialismo. Il tutto è sviluppato in chiave allegorica». La sua Aida è molto attuale senza essere tradizionale: ci sono riferimenti ai profughi siriani, all’ Islam, alla discriminazione delle donne: quale è il suo messaggio? «Non sono mai messaggi di propaganda. Aida è un’ opera problematica. L’ Etiopia viene vista in luce negativa come accade oggi coi profughi, l’ Islam. Volevo ribaltare questa visione, molto criticata a Oriente, mostrare un altro punto vista. Gli sfollati etiopi sono uno spunto per la situazione odierna, ma il mio è un riferimento simbolico, non realistico». Lei ha anche detto che Verdi e il librettista avevano un’ idea di quella cultura falsata. Come ha cercato di correggere questa interpretazione? «Nella tradizione originale Aida era una fantasia esotica degli europei con una visione degli egiziani non autentica. Quel che ho fatto con le scene (due monumentali scatole bianche) è un tributo all’ architettura egiziana ma in chiave positiva non stereotipa. Avevo problemi con la lettura tradizionale di Aida da cui trapela un’ idea terribile degli arabi. Ho pensato di rappresentare gli etiopi in modo più tribale, un ibrido fra look africano e orientale». Come vede l’ Iran di oggi e avrebbe desiderio di tornarci e potervi lavorare liberamente? «Certo c’ è sempre desiderio che le cose si normalizzano e di poter tornare a lavorare, ma non ho più nostalgia, ho superato questo forte desiderio, non potrei vivere più lì. Sono contenta e non voglio tornare indietro, sto bene qui con il mio compagno, il visual artist Nay Shoja Azari, e i due figli. Il resto della famiglia invece vive in Iran ma è venuto qui per Aida». Flaminia Bussotti.