Berlino – La giuria della 73ma Berlinale ha assegnato l’Orso d’oro per il miglior film al documentario ‘Sur l’Adamant’, del francese Nicolas Philibert, che è stato il più sorpreso di tutti nel sentire l’annuncio di avere vinto: “sono matti, o che?”, ha esclamato. L’Orso d’argento grande premio della giuria è andato al film ‘Roter Himmel’ (cielo rosso) del tedesco Christian Petzold. Orso d’argento della giuria a ‘Mal viver’, psicodramma al femminile ambientato in un albergo del portoghese Joao Canijo. Orso d’argento per la migliore regia a Philippe Garrel per il film ‘Le grand Chariot’ su una famiglia di tre generazioni di burattinai. L’italiano Disco Boy di Giacomo Abbruzzese ha vinto un Orso d’argento per il miglior contributo artistico della direttrice della fotografia, Helene Louvart. Orso d’argento per la migliore interpretazione alla piccola Sofia Otero, che con otto anni è la più giovane premiata nella storia del festival, e che si è commossa ringraziando fra le lacrime. Nel film spagnolo basco ’20.000 specie di api’ di Estibaliz Urresola Solaguren interpreta un bambino che rifiuta il suo nome e non accetta la sua identità sessuale. Orso d’argento per l’interpretazione non protagonista all’attrice e attivista trans austriaca, Thea Ehre, che nel thriller ‘Bis ans Ende der Nacht’ (fino al termine della notte) del tedesco Christoph Hochhäusler interpreta una trans che indaga negli ambienti della droga. Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla regista/sceneggiatrice tedesca Angela Schanelec per il film ‘Music’.
In una rassegna, che dopo più o meno due anni di congelamento dovuto alla pandemia si è rimessa in marcia, il programma era molto ambizioso e variegato, con accento sui temi di gender, inclusione, discriminazione, disuguaglianze, ma anche di attualità politica come l’Ucraina e l’Iran. L’impressione è che la grande varietà sia stata un po’ velata da una prospettiva di correttezza politica a scapito dei film leggermente fuori traccia e che non ha sempre messo d’accordo critici e giuria. Ad esempio per il Tagesspiegel avrebbe dovuto vincere un film tedesco (ben cinque in concorso). Personalmente concordo e penso che ‘Roter Himmel’ di Petzold avrebbe meritato l’Orso d’oro, pur considerando molto bello il documentario ‘Sur l’Adamant’ di Philibert, che ha vinto con sorpresa di tutti, in primis il regista. La giuria presieduta dall’attrice americana Kristen Stewart (ex Twilight), la più giovane presidente nella storia del festival, ha deciso comunque altrimenti e, pare, con voto unanime dei giurati.
Di seguito i principali film premiati, su 19 in concorso, a cominciare dall’Orso d’oro.
‘Sur l’Admant’ di Nicolas Phillibert (Orso d’oro per il miglior film): documentario sulla clinica day hospital su un battello sulla Senna a Parigi dove vengono assistiti pazienti con disturbi mentali. Uno sguardo dal di dentro sui problemi e le biografie dei malati, dei medici e gli assistenti sanitari, colto con delicatezza, rispetto e umanità: “ho cercato di convertire l’immagine di persone che spesso vengono discriminate e stigmatizzate”, ha detto Garrel ricevendo il premio dopo che prima aveva accolto incredulo l’annuncio (“che sono impazziti”?). Questa pellicola ha pensiero, sentimento, suono e immagine, si interroga in modo profondo e umanista su alcune domande “e ci ha davvero colpito tutti”, ha spiegato la presidente della giuria consegnando il premio.
‘Roter Himmel’ (cielo rosso) del regista tedesco veterano della Berlinale, Christian Petzold. Vince l’Orso del grande premio della giuria. Film tragicomico costruito intelligentemente e convincente. Ritiro in una casa al mare di due amici uno dei quali è scrittore e deve finire il suo ultimo libro, ma fatica e non è concentrato. Nella casa ci sono altri ospiti, fra cui una effervescente e attraente ragazza (Paula Beer, attrice fissa del regista): si sviluppano intrecci erotici etero e omosessuali, e scoppia un incendio (da qui il titolo) dove due di loro moriranno. Lo scrittore, interpretato dal bravissimo attore viennese Thomas Schubert, entra in crisi professionale e amorosa e il suo editore, malato di cancro interpretato dal figlio dell’ex cancelliere Willy Brandt, Matthias Brandt, gli boccia il libro ma pronostica che il suo prossimo, che poi narrerà le vicende della casa, sarà un successo. Funzionano la storia, la sceneggiatura, il ritmo e la durata (103’), ottimo il cast: meritatissimo l’orso.
‘Disco Boy’, opera prima (lungometraggio) del tarantino Giacomo Abbruzzese (39 anni). Storia di un clandestino bielorusso che per ottenere la cittadinanza francese si arruola nella legione straniera in una odissea che lo porta dalla Polonia, alla Francia, all’Africa nel Delta del Niger dove la guerriglia combatte le compagnie petrolifere. Il film, con Franz Rogowski protagonista, bravo nell’equilibrio fra esuberanza atletica e fragilità psicologica, ha colpito per la varietà del linguaggio cinematografico: si passa da uno stile naturalistico a uno psichedelico sciamanico, a riprese a infrarossi per le scene notturne. Orso per la migliore fotografia.
‘Ingeborg Bachmann, viaggio nel deserto’, film di Margarethe von Trotta sulla scrittrice austriaca che ha vissuto, ed è morta a Roma (dopo un tragico incendio nella sua casa in Via Giulia), circoscritto a sei anni della sua vita: i quattro della relazione con lo scrittore svizzero Max Frisch e i due che ha impiegato per superare la crisi della fine del loro legame dopo che lui l’ha lasciata. Bravissima nel ruolo protagonista l’attrice lussemburghese Viky Krieps e bravo anche Ronald Zehrfeld in quello di Frisch. Tradizionalista lui, proto-femminista lei, gelosie amorose e competizione professionale avvelenano il rapporto fra i due: lui se ne va, e nella sua vita c’è un’altra. Inge resta sola, devastata dal dolore. Un viaggio nel deserto con un giovane amico austriaco la farà ritornare alla vita e alla scrittura.
‘Suzume’, film di animazione giapponese di Makoto Shinkai. Storia fantastica di una impavida ragazzina che attratta da un misterioso ragazzo col potere di serrare tutte le strane porte da cui può entrare un malefico verme distruttore, corre da una prefettura all’altra e salva praticamente da sola il Giappone da una catastrofe incombente. Splendide animazioni, narrazione avvincente con forti evocazioni del disastro nucleare di Fukushima.
‘Blackberry’ di Matt Johnson: è la storia vera della nascita e scomparsa del primo smartphone nato dal genio di un gruppo di amici nerd di Waterloo in Canada con alla testa Mike e Doug. Con l’arrivo del top manager Jim Balsillie, licenziato dalla sua compagnia e affamato di riscatto, nasce il primo computer in formato portatile, il Blackberry (nome preso da una macchia di more che Mike si era fatto sulla camicia). La fama, i soldi e la cupidigia del manager portano l’azienda ai vertici della emergente new economy, ma traffici e illeciti la precipitano anche nel giro di pochi anni dalle stelle alle stalle. È l’ora dell’Iphone touch screen, Blackberry chiude e non riaprirà più.
-‘Le grand chariot’ di Philippe Garrel. Una famiglia di tre generazioni di burattinai alle prese con la morte improvvisa del padre, vero animatore del teatro, che solleva nei tre figli interrogativi sul futuro della loro professione, e indirettamente nel regista sui suoi figli che interpretano anche nel film la parte dei tre figli.
‘Limbo’, film australiano di Ivan Sen. Fra il western e il thriller, girato in bianco e nero con sceneggiatura assai parca di testo per gli attori. Gli inquirenti riaprono un ‘cold case’, l’omicidio rimasto insoluto venti anni prima di una ragazza aborigena: l’ombra dell’omertà grava sulla comunità bianca, un caso di mala giustizia alle spalle degli aborigeni. Un poliziotto bianco indaga, ma anche lui, tossicodipendente di eroina, non sembra molto più limpido del torpido in cui si è immerso. Film molto lineare e serrato, con il merito di tenersi nei limiti canonici di 95 minuti, rispettati da quasi nessuno dei 19 film in concorso.
‘Manodrome’ del sudafricano John Trengove, con Jesse Eisenberg nella parte di un autista Uber, Ralphie, che si imbottisce di anabolizzanti e si massacra di allenamenti da bodybuilder alla ricerca di una iper-mascolinità. La gravidanza della sua compagna esaspera il problema: si imbatte in una setta di maschi delusi dalle donne che vogliono riconquistare il loro primato (il loro leader è un perfetto angelico-diabolico Adrien Brody): le cose degenerano e virano per Ralph sullo psichic.
‘20.000 specie di api’ della regista spagnola basca Estibaliz Urresola Solaguren. Film delicato sulla ricerca di identità sessuale di un bambino di sei anni, superbamente interpretato dalla piccola Sofia Otero (Orso per la migliore recitazione), che è a disagio col suo nome e il suo corpo. Un soggiorno estivo, in cui entra in contatto con una apicoltrice e il mondo delle api, cambia la prospettiva di vedere le cose al bambino e alla madre.
Leggi Articolo Berlinale blog, gli orsi 26.2.2023